La questione della diagnosi, già a partire dal IV secolo a.C. (Foucault, 1984), è strettamente connessa a quella dell’eziologia. Fu in questa matrice che nacque e si sviluppò la medicina di Ippocrate (460-377a.C.), prima scuola medica strutturata dell’antichità (Foucault, 1961; 1962; 1963; 1984b).
Anche la psicoterapia ha una storia antica. La formazione filosofica, la religione e l’esercizio dell’arte hanno rappresentato da sempre, insieme alla pratica medica, un aspetto importante nella cura e nella comprensione delle turbe dell’anima. Si pensi, per esempio, all’uso della catarsi (gr. kátharsis: purificazione) nella tragedia greca o nella celebrazione di riti e sacrifici, presso i templi dedicati ad Esculapio (dio tutelare della medicina). Tutte queste riflessioni costituiscono un terreno comune nella storia della psichiatria e della psicoterapia, elementi di continuità e somiglianza. Nell’età antica e in quella classica, infatti, il sapere era integrato e custodito dalla riflessione filosofica. Il “saggio” era un eclettico, in grado di spaziare tra le varie discipline, da quelle medico-scientifiche, alle logico-matematiche, fino a temi di carattere etico-psicologico. Tale primato ha cominciato a sgretolarsi sotto la spinta positivista, mano mano che la scienza progrediva e l’uomo conquistava nuovi saperi.
La filosofia ha, così, perso il suo status di superiorità nei confronti delle altre scienze, restringendo il suo ambito di interesse all’epistemologia (discorso sulla scienza e sulla conoscenza) e alla riflessione bio-etica (fin dove può spingersi l’hybris umana? Che fare dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza?). Da questo momento in poi, a mio avviso, la pratica bio-medica (neuropsichiatria) e quella psicoterapica hanno cominciato a differenziarsi. Il sapere bio-medico ha assunto un carattere tecnico-politico, definendosi come una branca specializzata dell’igiene pubblica, cioè come un campo particolare della protezione sociale contro i pericoli connessi alla malattia; quello psicoterapico, in senso lato, ha mantenuto il suo carattere relazionale e pseudo-artistico, interessandosi più alla comprensione e alla connotazione del disagio mentale, che al disturbo tout court.
Se, infatti, nell’ambito pubblico della salute mentale è necessaria una diagnosi per prendere in carico un paziente e aprire una cartella clinica, nel momento in cui si fa psicoterapia non è la diagnosi ad essere importante di per sé, ma il modo con cui viene utilizzata nella relazione con il proprio paziente-cliente. In psicoterapia, qualunque orientamento teorico si segua, è infatti la relazione il vero motore del cambiamento (Fava Vizziello, Stern 1992), la tecnica ne è solo un tramite. Per questa ragione lo psicoterapeuta non si interessa tanto alla presunta malattia, ma all’individuo (dal lat. in-dividuus: indivisibile) nella sua totalità.
Quando si passa dalla diagnosi alla psicoterapia è infatti necessario fare epoché (Husserl, 1913; 1952), sospendere il giudizio su qualunque forma di etichettatura: significa privilegiare gli aspetti idiografici ai nomotetici (Windelband, 1894), i fattori protettivi a quelli di rischio. Significa oscillare, grazie ad una giusta dose di irriverenza (Cecchin, 1992), dal rigore scientifico all’immaginazione, dal dubito ergo sum alla fede nelle idee ardite, poiché é proprio attraverso le congetture audaci e le intuizioni creative che è possibile fare nuove scoperte e portare innovazioni (Popper, 1934). È in questa danza tra rigore e sregolatezza che deve muoversi, in continua enantiodromia, uno psicoterapeuta “sufficientemente buono” (Winnicott, 1958; 1964).
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