Il Milan Approach, o più precisamente Scuola di Milano, è un modello di terapia ad orientamento sistemico-familiare e relazionale, sviluppato a Milano a cavallo tra gli anni sessanta e settanta da Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata (psichiatri, psicoterapeuti). I riferimenti teorici della Scuola di Milano sono numerosi e si sono evoluti nel tempo. Possiamo tuttavia identificare come basi di partenza gli studi di Bateson e del gruppo di Palo Alto (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967), la teoria generale dei sistemi (von Bertalanffy, 1968), la cibernetica di primo ordine e, successivamente, la cibernetica di secondo ordine (von Foerster, 1987), il costruttivismo (Maturana e Varela, 1987) e il costruzionismo sociale (Gergen e McNamee, 1998).
Il modello milanese è conosciuto in tutto il mondo ed è seguito, in modo più o meno esplicito, da numerosi terapeuti. Fu Mara Selvini Palazzoli a stabilire i primi legami professionali con clinici e ricercatori internazionali, grazie alla pubblicazione del testo “L’anoressia mentale” (1963). La Selvini Palazzoli, fino ad allora medico psicoanalista, venne riconosciuta come uno tra i più importanti studiosi sistemici, proprio per le modalità con cui trattava in terapia le sue pazienti. Nel 1971 fondò il Centro per lo Studio della Famiglia, chiamando a collaborare con lei gli amici e colleghi Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata, che divennero noti in tutto il mondo come “i quattro della Scuola di Milano”.
L’evoluzione da un modello psicoanalitico ad un modello sistemico-familiare avvenne gradualmente e in modo sperimentale: i “quattro” iniziarono a vedere le famiglie alla fine della settimana lavorativa, solitamente il venerdì, mentre, i restanti giorni, continuavano ad esercitare la loro professione di psicoanalisti. Nelle pause riflettevano sul loro operato e studiavano i lavori del gruppo di Palo Alto, finché, nel 1975, uscì “Paradosso e Controparadosso”, pietra miliare della terapia strategica, che sancì ufficialmente la loro affrancatura dall’ortodossia psicoanalitica. A spronarli fu anche Paul Watzlawick, che nei suoi viaggi in Italia visitò il Centro e citò la Scuola di Milano in più di un’occasione.
L’esordio sulla scena clinica internazionale fu nel 1974, con la pubblicazione del primo articolo in inglese: “The Treatment of Children through Brief Therapy of Their Parents”, dove vennero messi in evidenza i primi temi fondamentali del metodo milanese: l’importanza dell’invio, l’uso dell’équipe terapeutica, la connotazione positiva e, in special modo, le prescrizioni di rituali familiari, interventi per l’epoca innovativi, usati per cambiare l’interazione familiare. Si approfondirono, quindi, le dinamiche relazionali implicate nel disturbo anoressico, nonché la complessità delle famiglie a transazioni schizofreniche, pubblicando studi e ricerche all’avanguardia.
La pubblicazione di “Paradosso e Controparadosso” fu il manifesto del loro nuovo modus operandi. La famiglia venne intesa come un sistema in cui il sintomo è mantenuto da modelli transazionali governati da regole. Venne introdotto il concetto di hybris, “la supponenza, la tracotanza, la tensione simmetrica esasperata”, tipica del pensiero rigido e disfunzionale. Il gruppo spiegò dettagliatamente le proprie modalità operative, a partire dalla struttura delle sedute, fino alla descrizione dettagliata delle tecniche e prescrizioni tra cui: la connotazione positiva, i rituali familiari, le tecniche per recuperare gli assenti, quelle per aggirare la disconferma, ecc.
L’idea di base era che il comportamento sintomatico servisse, paradossalmente, a mantenere l’omeostasi della famiglia e che, pertanto, fosse necessario un intervento controparadossale per sostituirla con una più funzionale. Per far ciò, all’ingiunzione paradossale elaborata dalla Scuola di Palo Alto, il Centro associò le tecniche sopra citate: una vera innovazione per l’epoca. “Paradosso e Controparadosso” rappresentò la prima fase del pensiero sistemico della scuola di Milano, detta “strategica”: la terapia era vista come una guerra o come una partita a scacchi contro ciò che si riteneva disfunzionale o patologico.
L’approccio milanese subì, in un secondo momento, l’influenza del pensiero della complessità e del costruttivismo, attraverso le figure di Heinz von Foerster, Humberto Maturana e Francisco Varela. Nel 1980 uscì su Family Process l’articolo “Ipotizzazione, circolarità, neutralità: tre direttive per la conduzione della seduta”, l’ultimo firmato dai “quattro”. Quell’articolo rappresentò la sintesi del loro lavoro in équipe e gettò le basi per quello che sarà il loro successivo affrancamento. Mara Selvini Palazzoli e Giuliana Prata proseguirono con la ricerca, mentre Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin si interessarono alla formazione di futuri terapeuti e alla divulgazione del loro modello in tutto il mondo.
Mara Selvini Palazzoli fondò solo più tardi (nel 1993) una scuola di psicoterapia presso il “Nuovo Centro di Terapia della Famiglia”, avvalendosi della collaborazione di Stefano Cirillo, Anna Maria Sorrentino e del figlio Matteo Selvini. Insieme, si concentrarono sull’analisi dei pattern relazionali delle famiglie disfunzionali, i cosiddetti “giochi psicotici” (1988), per poi approdare a tecniche che integravano la terapia individuale e familiare, la teoria dell’attaccamento e alcuni modelli psicodinamici (Gabbard, 2007). Mara Selvini Palazzoli morì nel 1999, la rivista “Terapia Familiare” le consacrò una serie di necrologi nel numero 64 del novembre 2000.
Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin hanno invece proseguito con lo studio di Bateson, Maturana e Varela e von Foerster, aderendo al paradigma della seconda cibernetica, in cui si rinuncia ad ogni pretesa di oggettività e si pone l’attenzione sull’osservatore più che sul sistema osservato. Questo, a loro dire, anche grazie alle continue domande dei loro allievi, che, per carpire i segreti del “buon terapeuta”, non perdevano occasione di farli riflettere sul loro operato durante le terapie, costringendoli, come direbbero Maturana e Varela (1987), a comunicare sulle loro comunicazioni.
Cecchin (et al. 1992; 1997) si è occupato, prevalentemente, delle premesse e dei pregiudizi del terapeuta, invitando sempre ad un atteggiamento di curiosità (1987), da affiancare all’ipotizzazione, alla circolarità e alla neutralità: i tre cardini del Milan Approach. Il lavoro con l’équipe dietro lo specchio unidirezionale risulta, quindi, fondamentale per prendere consapevolezza di tali processi e monitorarsi costantemente.
Altro concetto cardine è l’irriverenza, la non accondiscendenza alle “idee perfette” (2003), che sono considerate “hybris delle prigioni della mente”. Una riflessione importante è il significato di matrice esistenziale del “ti vedo” cecchiniano (Bozzetto, 2010): un uomo esiste al mondo (dasein) solo se è visto da un altro uomo, il disagio e la malattia sono spesso un modo che usano le persone per essere riconosciute, viste, considerate.
Cecchin è morto nel 2004, in un tragico incidente d’auto, lasciando un’eredità e degli stimoli preziosi, ma anche tanti rimpianti per tutto quello che avrebbe ancora potuto dire e fare. Una caratteristica importante del suo modo di pensare era, appunto, la provvisorietà e il fatto che fosse in eterno work in progress. Per questa ragione, nell’ultima fase, preferiva sostituire la parola “fantasia” ad “ipotesi”, proprio perché permetteva al terapeuta di essere più libero e irriverente (…anche dal pensiero razionale a cui è connesso il concetto stesso di “ipotesi”).
Luigi Boscolo, parallelamente, ha continuato con il perfezionamento del modello sistemico, allargandolo anche a livello individuale e non solo familiare. Da queste esperienze, insieme a Paolo Bertrando, pubblica: “I Tempi del Tempo” (1993) e “Terapia Sistemica individuale” (1996), in cui vengono approfonditi aspetti legati alla narrazione e alla storicizzazione degli eventi, processi fondamentali per uscire da una comunicazione a doppio legame, con particolare interesse alle domande sul futuro, dall’intrinseco potenziale terapeutico, proprio perché aprono al cambiamento e a nuove possibilità.
In “Terapia Sistemica Individuale” (1996) viene proposta una visione più ampia del Milan Approach, che Boscolo e Bertrando definiscono “epigenetica”, ossia per stratificazione (gr. epi: sopra e génesis: generare, produrre). Vengono così recuperati molti concetti di matrice psicoanalitica, prima rinnegati, ma ricontestualizzati in chiave sistemica, insieme ai contributi del costruzionismo sociale e della narrativa.
L’ultima riflessione di Boscolo (anni 2000), prima di ritirarsi a vita privata, riguarda il ruolo delle emozioni e dell’empatia in terapia: si ha vero cambiamento, solo se, accanto alla comprensione razionale, si ha anche una comprensione affettivo-emotiva. Concetti che erano stati accantonati nella prima fase del Milan Appoach, poiché troppo vicini all’idea di insight psicoanalitica, ma rivalutati proprio in virtù della prospettiva epigenetica.
Il concetto di “epigenesi” è molto vicino a quello di “epistemologia genetica” di Piaget (1970), che si riferisce allo sviluppo dell’intelligenza come risultato di un’interazione
dinamica tra organismo e ambiente, per mezzo dei meccanismi di assimilazione, accomodamento ed equilibrazione. Il Milan Approach risulta essere per questa ragione una cornice che lascia ampio spazio alla creatività e alla libertà di pensiero di coloro che vi aderiscono, senza essere tuttavia un’accozzaglia di teorie contraddittorie e confusive. La base di partenza e il faro a cui fare riferimento rimangono sempre la teoria dei sistemi viventi di von Bertalanffy (1968), la visione ecologica della mente e delle idee di Bateson (1972), la cibernetica di secondo ordine (von Foerster, 1987) e il costruttivismo (Maturana e Varela, 1987).
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