Ho sentito, forte, la necessità di scrivere qualcosa sul suicidio, viste le ultime notizie apprese nei mass media. Il quadro che emerge risulta da quanto segue.
Le vittime del suicidio hanno un’età media di 52 anni, la fascia maggiormente interessata va dai 45 ai 54 anni con un’incidenza del fenomeno (i nuovi casi all’anno) pari al 48,5%. La maggior parte dei suicidi si è registrata nel Nord Italia, in particolare nel Nord-Est, ad uccidersi sono soprattutto gli imprenditori, mentre i tentati suicidi si verificano prevalentemente tra i disoccupati.
Il 2012 può quindi essere considerato un annus orribilis: da gennaio a dicembre sono 68 le persone che hanno deciso di togliersi la vita in Italia, 66 uomini e 2 donne, circa 8 al mese, a cui si aggiungono 20 tentati suicidi da gennaio a settembre. Le motivazioni sembrano essere di origine economica, registrando un’inversione nel trend del triennio precedente (dati aggiornati al 20 dicembre 2012, presi dal sito www.firstonline.info/news).
Treviso, insieme a Venezia, vanta il triste primato del numero più alto di suicidi nel Veneto, che sale a 20 nel 2012. Il più clamoroso è certamente quello del barista 38enne impiccato in piazza S.Vito, nel suo locale, e che ha turbato gli animi dell’intera collettività.
La prima reazione che suscita in me chi decide di togliersi la vita è di rabbia per chi se ne va e di compassione per chi resta. Per cultura ed educazione sono sempre stata portata a giudicare tale gesto come altamente aggressivo e manipolatorio, frutto di una mente onnipotente, codarda ed egoista. Mi appello all’idea cristiana, ma anche platonico-aristotelica, che la vita è un dono e che non si è padroni di decidere quando è giunta la nostra ora. Vedo poca differenza, da questo punto di vista, tra suicidio e omicidio, considerando entrambi dei delitti.
Come psicologa, però, mi devo interrogare diversamente, a costo di mettere totalmente in discussione le mie premesse, se voglio mantenere un atteggiamento di neutralità e fare bene il mio lavoro. Queste domande suscitano sempre accesi dibattiti fra i colleghi, proprio perché vanno ben oltre la pratica terapeutica: si rifanno, infatti, all’essenza dell’esistenza stessa.
Abbracciando l’idea sistemica che due menti siano meglio di una ho deciso di rivedere alcune mie posizioni confrontandomi, virtualmente, con diversi autori e professionalità (altre menti), nella speranza di poter avere nuovi stimoli e nuove idee. Quanto segue è il risultato di questo “incontro”, una riflessione “ad alta voce”, che mi permetto di condividere proprio con l’intenzione di suscitare nuove riflessioni e dibattiti.
Ciò che conta, infatti, sono le domande, non le risposte…
Il termine suicidio deriva dal latino sui- caedĕre, che significa “tagliare a pezzi se stessi”. Chi decide di togliersi la vita è infatti lacerato dal di dentro, Giampaolo Lai (medico, psicoanalista, nonché padre del conversazionalismo italiano) parla di tre protagonisti presenti nella scena del suicidio: il Corpo Mortale, l’Anima Feroce e il Killer Spietato, tre protagonisti uniti dal fatto di avere un unico nome, di vivere dentro ad un’unica persona. Il Corpo Mortale subisce la condanna dell’Anima Feroce perché non è stato in grado di realizzare i suoi ideali, mentre il Killer spietato esegue la sentenza, tramutando il pensiero in agito.
Da questa prospettiva ha ancora senso parlare di ragioni del suicidio? Giampaolo Lai ci invita a pensare in termini di passioni. Il salto del suicidio si consuma, infatti, perché mosso da una passione attiva che conferisce al soggetto uno stato di confusione e di instabilità dinamica.
Chiedersi perché una persona si suicida, appare alquanto riduttivo e semplicistico, chiude a possibilità di riflessione, in termini di complessità, perché è una domanda lineare. L’epistemologia da cui sarebbe utile partire è quella sistemica, che prende in esame i molteplici fattori che, interagendo, possono esitare nella decisione di togliersi la vita (n.b.: è interessante constatare che anche il termine “de-cidere” derivi dal latino de-caedo, ossia “tagliare via, togliere via”, proprio come “suicidio”).
Non è facile dare senso ai dati epidemiologici sui suicidi e tentati suicidi, spesso sottostimati, come non è corretto, parlando da un punto di vista epistemologico, strumentalizzare le statistiche, come stanno facendo i giornali e le televisioni. Non si vuole, in questa sede, sottovalutare l’entità della crisi economica e il dramma che stanno vivendo gli imprenditori, ma è opportuno riflettere sulle nostre attribuzioni causali, spesso dettate da pregiudizi, onde evitare una proliferazione del fenomeno, specie tra i giovani.
Il suicidio, da un punto di vista ontologico, va ben distinto dal tentato suicidio, in cui si rileva più una richiesta di attenzione-aiuto che una reale volontà di morire. Come rileva il filosofo Salvatore Natoli, il suicida con il suo gesto vuole dare un messaggio che non ha nulla a che fare con una richiesta di aiuto, ma che riguarda una richiesta di senso. Attraverso il suo radicale “no” alla vita, il suicida afferma l’assurdità della vita stessa, del dolore ad essa connaturato, ma tale affermazione non può più valere per chi muore, ma per chi vive, rendendone intollerabile l’esistenza. Per questa ragione viene considerato un atto altamente aggressivo, non solo verso se stessi, ma anche verso gli altri.
Chi se ne va, invece, attinge la propria perfezione nell’attimo stesso in cui si toglie la vita, nel suicidio c’è il paradosso di una apparente eternità, per questo assomiglia molto alla felicità. Che cos’è infatti la felicità, se non l’esperienza dell’attimo che si attinge e che cade?
Si è riscontrato che chi è socialmente integrato, chi abbraccia un credo religioso sia più protetto dal rischio suicidario. Questo perché le sue azioni sono legate agli altri significativi (reali o interiorizzati), può esserci, quindi, accanto all’indiscussa crisi economica, una crisi di ideali, di valori, dietro a questi nuovi fenomeni? Come e quando si è consumata questa rottura?
La nostra angoscia di morte spesso ci porta a negare il dolore, a soffocarlo, stordirlo, a razionalizzare quanto non può essere spiegato dalla ragione, poiché ha a che fare con la passione. Forse avremmo meno suicidi se, finalmente, accettassimo il dramma della vita, perché l’uomo è capace di felicità, solo se è capace di dolore. La nostra società è la società delle dipendenze da alcol droghe e psicofarmaci, è la società che non tollera la benché minima frustrazione, perché non si vogliono accettare quei “no” che aiuterebbero a crescere, se affrontati, compresi e accettati. È la società che ha ucciso Dio, per poi sostituirlo con altri idoli, che si sono rivelati delle chimere.
Per questa ragione non è opportuno equiparare il suicidio dei giorni nostri con quello della tradizione stoica nell’antica Grecia. Per lo stoico, infatti, la vita è come un teatro e deve essere interpretata da grandi attori: si deve uscire di scena quando ci si accorge di non riuscire a vivere una vita secondo sapienza, quando, cioè, il corpo non permette di realizzare lo spirito che contiene e comprende, quando non c’è più possibilità di essere oggetto di virtù. La morte non è una fuga, né è conseguenza di uno stato di disperazione.
Ecco quindi l’elemento di dignità, il saper uscire di scena quando non ci si sente più attori della propria esistenza, lasciando alla collettività l’immagine migliore di sé. La morte dello stoico era infatti una morte corale: era esibita, si parlava ai discepoli, si abbandonava il mondo in compagnia, con l’intenzione di lasciare la propria memoria. Non c’era rifiuto del mondo, né del dolore. Per questo si avvicina più al concetto di eutanasia che di suicidio.
Per capire un fenomeno, bisogna astenersi dal giudicarlo, anche se non è umanamente facile, nel caso delle condotte suicidarie. Come psicologi siamo tenuti a prevenire qualsiasi forma di atto lesivo, connotandolo di fatto negativamente. Ci troviamo di fronte ad un impasse: si afferma da un lato la libertà umana, la responsabilità individuale, mentre dall’altro ci si interroga sulla fragilità dell’essere e sull’instabilità delle proprie decisioni. Per questo si prende tempo e si chiede per contratto terapeutico una sospensione della decisione per la durata del trattamento psicologico.
Questo non significa negare il diritto di decidere del proprio cliente, ma aprire, attraverso il dialogo terapeutico, al campo delle possibilità, restituendo la capacità di sperare e di rendersi conto che “la libertà è l’esatto opposto dell’arbitrio, accettare il proprio destino significa essere liberi”, come ci insegna Binswanger, psichiatra fenomenologo ed esistenzialista.
Gregory Bateson, grande epistemologo del novecento, nonché padre delle moderne teorie sistemiche, afferma la natura processuale e collettiva del concetto di mente. Nel setting clinico succede proprio questo: dall’incontro di due anime nasce una mente. C’è vita quando c’è dinamicità, caos, quando di apre alla potenzialità e alla complessità. Secondo questa ottica, più che valutare l’atto suicidario in sé e per sé, è necessario comprenderlo e leggerlo all’interno del contesto in cui viene attuato, letture meramente sociologiche, come quella di Durkheim, o psichiatriche, che tendono a patologizzare qualsiasi cosa si discosti dalla norma, non sono utili proprio perché tendono a semplificare ciò che nella realtà semplice non è.
Ho molto apprezzato l’invito che James Hillman, psicoanalista junghiano, fa ai terapeuti. Questi parte dal presupposto che il suicidio sia una delle possibilità umane e che la morte possa essere scelta. Il significato di questa scelta dipende dal contesto e dagli individui. Il lavoro dell’analista sta nell’individuare il significato che ha per quella persona il suicidio, al di là di ogni tipo di classificazione. Qui entrano in gioco i valori e le credenze personali. È importante comprendere senza giudicare, anche a scapito dell’atteggiamento orientato alla prevenzione, che per etica bisogna avere. Per prevenire, però, è necessario non contrastare, ma accogliere. La relazione paziente-analista diventa a questo punto essenziale. L’esperienza della morte diviene, quindi, essenziale alla vita, essendo letta come una richiesta di vita più piena. L’anima predilige l’esperienza di morte per introdurre una trasformazione, considerato in questo modo, l’impulso suicida è una pulsione di trasformazione.
Tutto ciò ricorda per certi versi il mito del vaso di Pandora: il vaso di Pandora è il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversano nel mondo dopo la sua apertura, sul fondo del vaso rimane solo la speranza: è a questa che fanno ricorso le anime nei momenti di sconforto. La speranza non può mai precedere l’esperienza del dolore, ha senso solo la segue. Così in terapia: si può superare o accettare, solo ciò che si è com-preso ossia “preso insieme”, “abbracciato”. La disperazione produce grido di salvezza, introduce l’esperienza della morte e nello stesso tempo costituisce il requisito della resurrezione.
Heidegger afferma che l’uomo è da sein (ted. esser-ci), è nelle cose, e questo suo essere nel mondo si esprime nel prendersi cura degli altri, che è la struttura basilare del rapporto tra gli uomini. L’aver cura degli altri può prendere due direzioni: si cerca di sottrarre gli altri dalle loro responsabilità, oppure li aiuta ad acquistare la libertà di assumersi le loro cure. Nel primo caso si ha un semplice “stare insieme” e si è davanti ad una forma in autentica di esistenza, nel secondo caso si ha un senso autentico del coesistere. Idea che si connette al concetto sistemico di ecologia della mente, cooperazione, rete di sostegno, integrazione.
Credo fortemente che sia questa la chiave per uscire dalla crisi che stiamo vivendo e che tante vittime ha già fatto nel nostro territorio.
BIBBLIOGRAFIA
G. BATESON: “Verso un’ecologia della mente”, ed. Adelphi (ed. italiana 1977, originale 1972)
G.BATESON, M.C.BATESON: “Dove gli angeli esitano”, ed Adelphi (ed. ita. 1989, orig. 1987)
E. DURKHEIM: “Il suicidio: studio di sociologia” (1897), ed italiana Rizzoli, Milano (1987)
J. HILLMAN: “Il suicidio e l’anima” (1964), ed ita. Astrolabio, Roma (1972)
W. FESTINI CUCCO, L. CIPOLLONE: “Suicidio e complessità”, Giuffrè editore, Milano (1992)
SELVINI PALAZZOLI, BOSCOLO, CECCHIN, PRATA: “Ipotizzazione, circolarità, neutralità: tre direttive per la conduzione della seduta”, Terapia Familiare, n.7, 1980, pp.7-19. Orig. Family Process, vol 19, n.1, 1980, pp.73-85.